Ritorni

Sono passati sei anni. Sei anni in cui non sono riuscita più a scrivere niente, in cui ho tradotto a tratti, rubando tempo e attenzioni a me stessa e a mia figlia. Sei anni in cui ho cambiato lingua di lavoro, dal tedesco all’inglese, pensando che sarebbe durato un anno e invece là sono rimasta, ho cambiato casa, ho vissuto due anni a Venezia, mai convinta, sempre stanca ma a volte immensamente felice. Sei anni in cui ho imparato tanto, tantissimo e ho condiviso in modo diverso, dal vivo, di persona. Sei anni in cui i blog sono diventati una reliquia del passato, tipo incunaboli del web. Questi sei anni vissuti e poco riflettuti stanno come un buco nel mio blog proteiforme. E da questa mancanza ritorno e provo a ritrovare qualcosa della filoglotta che è stata.

Gace e altre delizie

Stanotte la Nina si è svegliata e ha cominciato a invocare “nonna”. La sentivo dal mio letto, nel dormiveglia, e pensavo: ‘Che strano, non chiama mamma né papà’ . Immagino che sia il peso rilevante che stanno assumendo le nonne nella sua mente. Dopo aver fatto un povero tentativo di “inserimento al nido” in ottobre, ho disinserito mia figlia e per ora ricorro, con giudizio e ritegno, alle nonne per i giorni in cui lavoro. Mia madre è estasiata al sentirsi appellata in questo modo. Forse la Nina sta anche cercando di distinguere tra le due nonne – giustamente le articola già anche al plurale, per una sorta di inconsapevole prudenza – e mia madre è stata battezzata “nonna nana”, che immagino sia una deformazione di Ivana.

Caccapupu

Ho la sensazione che il linguaggio della Nina stia per esplodere. Ora che “acqua” viene pronunziato con un’ottima articolazione. “Latte” invece è ancora più “ate”, ma siamo sulla buona strada. “Qua” è il deittico imperante, non usato tuttavia solo per i luoghi prossimi bensì anche per “là”, e significa, volta per volta, ‘Portami in quel posto’, ‘Voglio rimanere in questa stanza’, ‘Mettimi sulla sedia della scrivania e fammi girare’ ecc. Di solito viene emesso con toni di vibrante pathos. Chiama perfettamente col suo nome la bambolaccia di pezza che porto in giro, per via della sua lavabilità rapida, e che ho battezzato Anna, da Anna dei capelli rossi. Fanno parte di un repertorio ormai collaudato il meraviglioso “gace”, perché da almeno un paio di mesi la Nina ringrazia a destra e a manca e usa “gace” anche per chiedere qualcosa o quando ci porge un oggetto. E poi “ciao” (con la variante “tao”), “pappa”, “nanna”, “pipì” e “cacca”, queste ultime due già scatenano l’ilarità, probabilmente perché le associamo sempre noi a risatelle ed esclamazioni di stupore, repulsione teatrale e divertimento. Ovviamente col padre mi bisticcio anche sulla cacca: io sono per la solidità dell’occlusiva velare sorda /k/, lui è per “pupù” che non appartiene al mio lessico familiare. A volte ricorro al titolo di un libro per bambini e faccio una bella parola composta, caccapupù. A me però sembrano predominare le occorrenze di “cacca”. A livello di competenza passiva, la parola “sederino” si è aggiunta a “braccia”, “gambe”, “collo”, “mento”, “guancia” (che ogni tanto però viene comprensibilmente confusa con “pancia”), “fronte”. “Sederino” nella collocazione “aria dal sederino”, anche questo, ovvio, fonte di grandi risate da ambo le parti. (Io faccio ancora la puritana, per quanto sia possibile, e contrasto la parola “culetto”, per non parlare dei termini più bassi che designano l’emissione di gas intestinali)

Quel che stavo aspettando è che la Nina dicesse il proprio nome. Nome che, per inciso, non è Nina, è un trisillabo con tanto di affricata alveolare sorda (una “z”, insomma) che forse un po’ complicato per una bambina. Da qualche tempo – non succede spesso, ma d’altronde, chi è chiama se stesso per nome? – capita che lei effettivamente lo dica. Se si vede allo specchio o in una foto e le si chiede: ‘Chi è quella?’, dice una cosa molto simile al suo nome, senza affricata ma con occlusiva dentale al suo posto (una “t”, insomma).

L’occlusiva dentale mi porta a un’altra considerazione. Data la sua fondamentale importanza, il ciuccio rientra tra i vocaboli di competenza attiva. La cosa buffa è che lo pronuncia quasi più come se fosse una anglofona che dice “tutto”, dunque con una occlusiva alveolare ( [t̪] ) e quando mi imita e ripete quel che dico, per esempio, “Ecco, ti sei sporcata tutta”, usa parimenti questa “t” da inglese.

HungryCaterpillarNo, non le leggo in inglese. Ho un unico libro in inglese, The Very Hungry Caterpillar, di Eric Carle (comprato a Berlino in questo tempio della cultura), un grande classico di grande bellezza, ma quel paio di volte che ho cercato di leggerglielo in inglese, mi è parsa irritata. Possibile? Medito di aggiungere a mano la traduzione in italiano e rimandare a più avanti gli altri tentativi in lingua. Mentre possiede alcuni libri in tedesco, regalo di un’amica austriaca, che sembrano piacerle molto e che sfoglia spesso con grande attenzione. Se cerco di leggerglieli, ascolta, ma – come con quelli italiani – è troppo impaziente di girare le pagine e non riesco a fare letture con capo e coda.

Ma il discorso sulle lingue è troppo lungo.

Capodanno

Non sopporto i lunedì. I lunedì mattina, poi, men che meno. Non sopporto settembre, mese mezzano fiacco e dedito alle pratiche del faticoso rientrare. Non sopporto la pioggia. E nemmeno impazzisco per la “suocera”.

Ora, si dà il caso che oggi fosse lunedì primo settembre, piovesse e che io, dopo essermi recata in un noto istituto tecnico turistico della Serenissima per completare l’ultima fase di un progetto sventatamente accettato, sia andata dalla “suocera”. Praticamente punteggio pieno.

Il progetto merita qualche riflessione che oggi non sono (più) in grado di fare. Oggi è il capodanno della scuola, gli istituti riaprono ufficialmente a tutti, i nuovi insegnanti prendono servizio, servili e uggiolanti nella loro seggiolina davanti al dirigente scolastico di turno, i vecchi starnazzano in collegio, abbronzati, ritemprati, di buon umore, si raccontano le vacanze estive, con gran gesti entusiasti, e a vederli diresti che siano lì per fare qualunque cosa fuorché progettare un anno scolastico.

Manchiamo solo noi. Noi, i supplenti, spezzonisti, tappabucchi, saltascuole, noi che arriveremo in ritardo, giù un po’ ingrigiti dal gran visitare il sito dell’UST (ciò che un tempo era il Provveditorato), noi che ora ci lambicchiamo il cervello guardando le graduatorie, domandandoci quale cattedra prenderà quella che tradizionalmente ha sempre fatto così, quale posto potrebbe scegliere quella che si è appena inserita e via cianciando, fra un’informazioncina e l’altra.

Si vive in un limbo, e si rimanda il Capodanno a data incerta. (Probabilmente l’otto o il nove di questo mese, esattamente a ridosso della scadenza imposta dal ministero)

Parliamo(ne)

Oggi è il mio San Silvestro. E’ nell’odioso mese di settembre che si decide il mio anno lavorativo, o non lavorativo. Arriva dunque il mio capodanno e rieccomi piena di buoni propositi, tipici degli inizi.

Ho lasciato scappare un altro anno, un intero anno. Potrei adossare la colpa alla Nina, così esigente come ogni bambino piccolo; alla nuova abilitazione che ho preso in fretta e furia; al lavoro che ho comunque portato avanti, seppur a tempo parziale; a mille piccoli disastri che hanno scardinato la mia esistenza, ma temo che sotto sotto ci sia altro. Non proprio pigrizia. Forse pavidità. Forse un dilagante senso di insulsaggine. Perché, di fatto, dedicarsi anima e corpo per ventiquattro ore al giorno a una figlia, tolte solo le ore di lavoro e il minimo necessario per tenere in piedi una casa e un corpo, significa non aver tempo per altro e rattrappirsi nel cervello. E così finisce che se hai un po’ di tempo libero fai spese necessarie e su Internet cerchi ricette per lo svezzamento, annunci di abbigliamento di seconda mano e informazioni su quali siano scarpe buone per i primi passi e non sai più niente di ciò che accade nel mondo, e, a dire il vero, nemmeno di ciò che accade ai tuoi amici o para-amici. Figuriamoci seguire l’editoria. Figuriamoci tradurre. Figuriamoci giocare con le parole.

Perché la filoglossia, ho scritto su, “è un passatempo come un altro” e non avevo mica tempo da passar via. Avrei potuto aprire l’ennesimo blog di mamma felice e istruttiva? No, non ne ho la stoffa. Leggo ancora parecchio su bambini e il loro sviluppo, ma sento ormai che non basta. Sono delusa da questa ignavia intellettuale generale. Vorrei respirare mentalmente.

Mi ero ripromessa di prendere a trionfale pretesto per tornare a filoglottare il momento in cui la Nina avesse cominciato a parlare. La cosa affascinante è che tutto, nei bambini, non ha un inizio subitaneo e plateale, degno di commemorazione futura. No, è tutto un lento trapassare, uno sviluppo minuto, sottile, graduale. Come per il camminare: la Nina ha iniziato molto presto a gattonare e, per quanto mi sia appuntata nel diario un giorno x,  non saprei già più dire quando ha intrapreso stabilmente la stazione eretta, perché prima sono venuti innumerevoli saliscendi, aggrappati-al-sofà, arrampicati-al-tavolino, un passetto lungo il mobile ecc ecc. E lo stesso per il linguaggio: prestissimo sono arrivati i primi suoni e quand’è che questi esercizi fonatori, questo ripeter di sillabe, “ma-ma”, “ta-ta”, “ghe-ghe”, sono diventati portatori di senso?

Anche qui credo di aver buttato giù un fatterello che ho deciso essere molto significativo. A fine giugno, una mattina molto presto, cercavo di convincere la Nina che alle cinque si dorme ancora. Sull’uscio, in penombra, si vedeva la pallina di gomma con cui giocava da mesi, una pallina su cui c’è scritto “John”, per cui spesso si diceva “Tira John”, invece che il canonico “Tira la palla”. La Nina ha notato la palla e indicandola ha esclamato: “Giom!”. Ho consacrato questo momento come l’inizio dell’eloquio sensato.

Adesso che ha sedici mesi e rotti, oltre ad aver appreso perfettamente il “no”, sia il suo tipico gesto con l’indice che il monosillabo, e farne un uso che talora arriva a devastare qualunque fortilizio di pazienza, la Nina ha un vocabolario che oscilla da un “pa-pàààà” flautato quando vuole vedere il padre o lo evoca a un “ma-mmaaa” anche molto dolce, quando cerca coccole (meno frequente) a un  “mamma!”, molto più frequente, assai deciso e a volte bizzoso che non significa solo “mamma, vieni qui e …” (esaudisci i miei desideri), ma anche “voglio quella cosa da mangiare!”, “dammi velocemente il latte”, “passami il ciuccio senza tante storie” e così via, laddove pare sia la cosa a chiamarsi “mamma” o la funzione “servile”, visto che viene sfoderato sia al padre che alla nonna che a chiunque capiti a tiro. Un termine polivalente, questo “mamma”. E poi c’è il linguaggio suo personale: tempo fa per una settimana ha detto solo “camu, camu, camu”, ora sfoggia un numero importante di mono- e polisillabi, “a-miiii”,”a-meeee”, “a-piii”, “a-pee”, “ahhhh-ppppaaaa”, qualcosa di simile a “cocciococciococcio” (segnale che sa di essere una testadura e forse inizia a vantarsene).

A incantarmi, tuttavia, sono ancor di più le competenze passive. Mi sono accorta presto che capiva e, se aveva voglia, accondiscendeva alle richieste, del tipo “portami questo”, “bevi un po’ d’acqua” e così via. Riconosce i nomi degli oggetti più frequenti, dei giocattoli, anche delle stanze. Ho trovato stupefacente che sappia riconoscere parti del corpo senza che mi sia industriata ad insegnargliele: sa e indica cosa sono naso, pancia, capelli, mani! Probabilmente sa molto di più di quanto io possa sospettare.

(Mi pare di ravvisare un’analogia con l’insegnamento delle lingue, ho l’impressione di non sapere mai davvero bene cosa e quanto sappia l’allievo a livello passivo, è una palude di difficile esplorazione).

Schirmständer

L’unica parola imparata quest’estate.  Non è un magro bottino, per un mese in Kakania?

Pensavo or ora, cercando di mettere ordine in una vita parecchio disordinata e mangiando biscotti, che possono essere cotti al vapore quanto vuole Banderas e chi per lui, ma sicuramente non aiutano una linea altrettando disordinata.

Tra mille “maledetta la volta che…” e nella disperazione pre-e postviaggio, per eccesso di zavorra, sono riuscita davvero a portare la Nina in Kakania che dei suoi quasi cinque mesi di vita può già contare su un mese all’estero. D’altronde è molto probabile che all’estero sia stata concepita, quasi sicuramente in Kakania, per poi dover patire le prime avversità in una Budapest torrida e inospitale. Ma questa è un’altra storia. Per non smentirsi, l’estate l’ha tartassata anche quest’anno poverina, un caldo insopportabile pure in Kakania. Tappati in una casa anni ’70, ovviamente senza condizionatore, per fuggire l’afa.

Schirmständer è il portaombrellone, nella fattispecie quello di ferro che serve ai laghi kakanici, per infilare il bastone nel terreno erboso o per incastrarlo tra le assi delle Brücken. Brücke:  già qui sono di nuovo in dubbio, come si chiamano le strutture lignee dei laghi, moli no, come allora? Tipo questo, che è proprio quello di Klagenfurt:

Una delle tre Brücken della spiaggia di Klagenfurt

E l’ho imparato solo perché un tizio, al Faaker See, me l’ha insegnato, dopo che io avevo detto in tedesco il “coso che serve…”. Vivan le perifrasi.

E’ un mio cruccio da tempo, mi pare di non riuscire più a migliorare il mio tedesco. Tedesco raffermo, non fa proprio la muffa, è abbastanza stabile, ma non migliora. Dovrei fare un corso? Ma nemmeno per sogno. Dovrei mettermi a leggere con il dizionario e fare liste di parole, come ai tempi del liceo e dell’università? Ma chi ha tempo e possibilità. Eppure sarebbe interessante vedere se ci sono studi sugli sviluppi dell’apprendimento della lingua quando si arriva a livelli alti e – ahimè – non si vive nel paese in cui la lingua è parlata.

E poi devo studiare inglese, io, altroché, visti gli impegni che mi aspettano nei prossimi due intensi mesi.

La Nina ha iniziato – shhhh, forse dovrei tacere… – a tirar dritto di notte, che Morfeo sia lodato, e ora non ho più scuse per non terminare l’ennesimo corso di studi inutile, sempre in beneficenza all’università italiana.

Ricomincio da A.L. pregnant

A Venezia – sono tornata in Italia e chissà se e quando ripartirò per qualche avventura estera di lunga durata – è in corso la Biennale e tra le statue più controverse ce n’è una di Marc Quinn installata sull’isola di San Giorgio:

Immagine

L’ho vista giorni fa, passando in battello davanti a San Giorgio, ignara della Biennale, come sono ignara di quasi tutto ciò che accade al mondo da un paio di mesi. Sentivo i commenti sciocchi degli studenti adolescenti e intanto guardavo la statua, una donna focomelica incinta, e sentivo che vi era rappresentata una persona vera (infatti) e soprattutto una madre, non importa se senza braccia e con due gambe troncate, una madre a venire, con una creatura già bell’e formata. Sentivo un misto di ammirazione, tenerezza ed empatia. Sensazioni che sicuramente non avrei avuto un anno fa.

Perché è passato un intero anno senza che scrivessi un rigo e sono profondamente, irreversibilmente cambiata. E il cambiamento è una bimba arrivata fresca fresca.

Nell’articolo l’artista focomelica dice: I never thought I would be a mum. Nemmeno io. Avevo perso la speranza, la voglia e – credevo – anche le possibilità tecniche. Più che Torschlusspanik era ormai certezza che la porta fosse chiusa. Forse non ho mai avuto meno tempo per me di ora, eppure mi è tornata voglia di bloggare e spero di reggere nell’intento. Ci sono così tante nuove parole che ho imparato in questi ultimi mesi, così tante nuove esperienze da denominare.

A volte…

… guardo una foto di ex compagne di scuola, la guardo con occhio disattento, come se fossero delle estranee (e ad onor del vero lo sono in gran parte). E vedo due donne che non lo sanno ma non sono più giovani. Il collo tiene, la magrezza c’è ancora o persino c’è a differenza che ai tempi del liceo, ma non sono più giovani. Sono due donne di mezz’età.

Come lo sono io.

Penso allo splendido libro che ho appena letto, i protagonisti sono una coppia di mezz’età. La mia età. Certo, negli anni ’40 la percezione era diversa, ma ripenso all’aggettivo “alterndes Paar”, una coppia che sta invecchiando.

(Sul libro devo tornare, era tanto che non trovavo un libro non da divorare, ma che ha divorato me).

Trois jours à Paris

Un viaggio notturno da Ulma alla Gare de l’Est. L’uomo seduto sul posto corridoio al mio fianco è salito a Stoccarda ed è sceso nove ore dopo senza recare traccia di stanchezza, mentre noi cercavamo di aprire gli occhi in visi sfatti e bugnati:  preciso preciso, si è coperto il busto con la giacchetta, ha messo la mascherina da volo aereo, ha inserito i tappi nelle orecchie e ha dormito senza pausa.

Nella metropoli mi sono trovata sopraffatta dal sole e dal caldo e dilaniata dalla dicotomia di soverchiante bellezza e annichilente mal di piedi. Code, code, code. Il Sacro Cuore ancora più bello e bianco di quanto lo ricordassi (gita a Parigi in quarta liceo, 1990). Panetterie piene di cose buone a Montmartre. La vecchietta che si ferma mentre facciamo colazione su una panchina fuori della boulangerie e dice qualcosa, tutta seria e intenta, e io non capisco: avete la maglietta dello stesso colore. Color del cielo, questo cielo che a Parigi c’è dappertutto. Almeno nella Parigi turistica. La Parigi dalla Tour Eiffel, per esempio. La Parigi sopra l’Arco di Trionfo.

Metter su tre chili mangiando cose schifose ai chioschetti, sempre di corsa, in piedi, la dura vita turistica. E tutto a 5 euro. O di più.

Ma l’ultima sera cena eccellente con la Fra, ormai naturalizzata. Da quanto tempo non ci vedevamo? Troppo. Ma c’est la vie.

Istantanee scolastiche

La scuola del lunedì e del martedì la vedo come un odioso arruffio di cose e bambini e adolescenti e insegnanti.

Arrivo alle 9.45 circa, durante l’intervallo lungo (große Pause), quello che dura venti minuti, e sia grazie a Dio, mi permette di poter prendere l’IC diretto a Karlsruhe delle 08.05 e non un treno ben un’ora prima. Sulla porta della sala professorir (Lehrerzimmer) c’è un cartello scritto a mano, Heute schon gegrüßt? Già salutato oggi? Non so chi l’abbia scritto, sicuramente qualcuno che si augurava ci fosse sempre cortesia tra gli umani che popolano la scuola. Invece non una voltasola, per fare un esempio di umana cortesia, mi sono trovata la porta sbattuta in faccia dal collega, con una dozzina di virgolette, che sgusciava nella stanza due secondi prima di me e che doveva non avermi visto frugare in borsa alla ricerca delle chiavi. Cose che capitano, è vero. Perchè in quei venti minuti c’è un baccano, una fretta, che mal si addice alla cortesia. Dentro c’è una teoria di visi parecchio torvi e qualche faccia tranquilla, la maggior parte dei docenti si assiepa attorno al tavolo grande a sinistra dell’entrata, dove quasi sempre qualcuno ha portato una focaccia, un dolce, del pane, qualcosa  da mangiare di cui tutti si servono. Non c’è bisogno di un’occasione, a quanto mi pare di capire, è un uso. I teutonici sono molto attaccati ai loro usi e costumi. Per esempio al rito del festeggiamento del compleanno del collega. Ho dovuto assistere ad agghiaccianti scene di persone attorno al tavolone della sala insegnanti che venivano celebrate da canti per me parecchio esotici, orchestrati da una maestra che a parer mio riproduce esattamente fattezze e sembianze della cattiva matrigna di Cenerentola, tutta intenta ad agitare le braccia per regolare i festanti colleghi. Sopra la fotocopiatrice – l’attezzo più usato in assoluto – c’è un calendario in cui mese per mese sono cerchiati i giorni dei compleanni, con tanto di foto dei Geburtagskinder nella parte superiore. Ovviamente io non c’ero, sarò o non sarò la forza lavoro gratis da usare come si vuole e che non merita considerazione?, ma hanno cercato di coinvolgermi comunque, quando è arrivato il mio mese natale, sicuramente perché faceva loro comodo aver più roba da mangiare. La cosa mi scocciava tanto da farne una malattia. Ma nel senso letterale della parola: infatti mi sono ammalata e ho saltato la giornata, con sollievo.

Non ricorderò questa scuola con gioia. Brutto è stato l’inizio e brutta la continuazione. È una scuoletta di periferia, con un’utenza da periferia e sospetto anche un corpo docente da periferia. Una Grundschule (scuole elementare) e insieme una Hauptschule, e Hauptschule è un tipo di scuola che ti bolla come fallito precoce da queste parti. Se vali qualcosina puoi andare alla Realschule (più o meno un nostro tecnico), se vali qualcosa a un Gymnasium (più o meno il nostro liceo), se ti valutano una nullità resti nella tua scuoletta e fai l’Hauptschule, una scuola di cinque anni per disgraziati, casualmente la scuola dove finisce la maggior parte degli stranieri.  L’elemento inquietante in tutto ciò è che la persona viene condannata a un futuro scadente o promossa a un possibile futuro brillante dopo soli quattro anni di scuola, quando ha la bellezza di dieci anni. Allora, o si ha un genitore combattivo e capace (anche linguisticamente) di far valere le proprie ragioni, che non sono sempre vaneggiamenti boriosi di genitori ciechi, oppure sei fritto, nel bel paese di Teutonia.

La scuola del mercoledì era una forma particolarmente invasiva di questa Hauptschule: piena zeppa di turchi e di testine convinte di essere scarti cerebrali (spesso, temo, a ragione).  I turchi li preferisco nei romanzi, dal vero me ne starei lontana. Infatti il corso che tenevo come Arbeitsgemeinschaft (leggi: corso pomeridiano facoltativo, qundi da non prendere sul serio in nessun caso) in quella Hauptschule è morto dopo aver stentatamente vissuto qualche mese.

Sono passata dunque alla scuola del giovedì, che ora è la scuola del mercoledì e del giovedì: una Realschule a due passi da casa mia, basta passare per l’alter Friedhof, il parco che era il vecchio cimitero della città, diventato in questa stagione un meraviglioso bosco frondoso, mercoledì scorso profumato di erba tagliata. La Realschule ha di buono un preside che assomiglia vagamente al famoso ritratto del più illustre figlio di Ulma, una brava persona che davvero ama i suoi allievi (perché qui i presidi insegnano, a differenza che da noi) e che è ormai all’ultimo anno di carriera.

Son tutte brutte le scuole del mondo? La brutta scuola del mercoledì mi era parsa interessante almeno nell’organizzazione degli spazi e dei materiali: ci sono tante cose che in Italia non ho mai visto, i ragazzi lasciano i quadernoni con i loro nomi e i loro materiali, ma c’è la lavagna dove sta scritto chi è di corvée con la pulizia della lavagna, lo scopettino per spazzare l’aula, la carta da buttare nel riciclo ecc., le foto della gita, le immancabili regole della classe (per quel che valgono agli occhi dei ragazzi…), annunci di tirocini, cartelloni, tazze e fornelletto, poster e locandine di film, tentativi di haiku, cd, giornali e riviste, cartine geografiche, quaderni e fogli puliti, forbici, colla, puntine, pinzatrici ma anche colori e fogli da disegno, un divanetto e il calcio balilla. Ma tanto ai ragazzi la classe non piaceva comunque.

L’aula in cui sono al giovedì è brutta come sono brutti gli ambienti non amati. Alle pareti ci sono solo un paio di pagine di riviste con le facce e le gambe di due calciatori (Torres e un altro, chissà). Ambienti non amati dall’insegnante, anche e forse in primo luogo. C’è una piantina stentata che forse preferirebbe stare nel Sahara che là. Fogli dimenticati o buttati per terra e già adorni di impronte di scarpe ginniche, libri buttati sul davanzale interno delle finestre, qualche volta una calcolatrice abbandonata, bottiglie semivuote, cartacce, tentativi fasulli di pulizie nell’angolo. Gessi non ce n’è mai, o ricordo di portarmene io qualche pezzetto nell’astuccio o è la disperazione. Ma i banchi vanno rimessi come sono stati trovati e la lavagna ripulita, pena l’ira funesta dell’insegnante di classe.

La scuola del venerdì pomeriggio puzza di piscio. Ne senti l’agra zaffata salendo le scale, spesso addobbate di rimasugli di merende – una fettina di cetriolo o di salame, un pezzo di pane  -, per il resto la scuola è deserta, ne sono scappati tutti a mezzogiorno. L’aula diventa più squallida man mano che l’anno avanza. C’è un ragazzo (lo suppongo di sesso maschile, sicuramente a ragione) che da qualche tempo ormai lascia il banco esattamente com’è nel momento in cui suona la campanella: il quaderno malconcio aperto, i libri affastellati malamente sul ripiano, l’astuccio , lo zainetto appeso al gancio laterale semiaperto. Poco dopo deve aver contagiato anche il compagno di banco che ha iniziato a imitarlo, anche se meno compiutamente. I banchi sono lerci, oggi uno aveva il trofeo di una cingomma.* A Ulma si annaspava con trenta inusualissimi gradi e l’aula era una trappola in cui tutti si sventagliavano con i quaderni e protestavano acuti malesseri.

Quando finisco il venerdì i ragazzi spariscono in un baleno, solo a volte riesco a trattenerli per indurli a sistemare i banchi (sempre per il principio che lasciarli non nell’ordine trovato costituisce reato quasi penale), e la donna delle pulizie mi aspetta paziente per finire di rassettare la scuola. Scambio due parole con lei, cercando di cogliere il senso delle sue fortemente modificate dall’accento, metto via le palate di libri che mi porto via non sapendo mai chi verrà e dunque su che livello impostare il corso, e stancamente finisco la settimana. Libera dalla puzza di piscio e dalla settimana lavorativa.

* Una nota sulla cingomma. Che bella parola! Non ricordavo di averla sentita in Italia, sicuramente non è in uso dalle mie parti, dove l’ho sempre chiamata semplicemente gomma, o forse al massimo ciunga (mimesi fonestica di chewingum), o più recentemente cicca. Lo dicono gli allievi, anzi, alcuni di loro, e mi piace parecchio.